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DI QUELLO CHE NON HO MAI RACCONTATO E DI ALTRI SILENZI

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a cura di Elena Daniel

Abusi, lutti, vergogne ma anche delusioni o paure. E’ frequente che le persone in studio mi parlino di qualcosa che non hanno mai confessato a nessuno. E’ qualcosa che sembra non avere parole per essere raccontato, che non deve uscire allo scoperto, perché, qualora questo accadesse, sentono che si realizzerebbe l’Irreparabile: vergogna, giudizio altrui… O altrimenti temono che genererebbe un’emozione così intensa da non essere gestibile.

La sensazione è quella di mettere la polvere sotto il tappeto. “Nascondo quell’episodio ai miei occhi e a quelli degli altri e mi auguro che così in qualche modo smetta di esistere. Solo che maledettamente quell’esperienza c’è e il pensiero di averla lì sotto il tappeto non mi lascia vivere serena. Anzi, nel tempo, sembra quasi aumentare di dimensioni o di peso”: così me lo ha descritto una giovane donna qualche tempo fa.

Mi ha ricordato un racconto di Edgar Allan Poe: il protagonista vive con un anziano con un occhio di vetro che lo inquieta così tanto da arrivare ad uccidere l’inquilino, per liberarsi di quell’occhio arcigno. Ne nasconde il cadavere sotto il pavimento in legno. Quando la polizia accorre, chiamata dai vicini per le urla del vecchio, il protagonista racconta di aver urlato lui stesso per degli incubi e che il vecchio è in viaggio. I poliziotti credono alla sua storia, stanno già ridendo e pensando ad altro, ma l’ossessione del sentire il cuore che batte sotto il pavimento lo opprime tanto da spingerlo a confessare all’ultimo quanto ha commesso.

Perché la sofferenza non passi invano

Il raccontare può essere terapeutico: condividere permette di dividere un peso che sarebbe eccessivo per essere portato da una sola persona. Nell’esprimerlo con le parole, si porta concretamente fuori di sé qualcosa che così assume una dimensione, una forma e non è più qualcosa di pervasivo, che impregna la propria persona. Diviene qualcosa di esterno a sé e questo consente di guardarlo da angolature diverse e coglierne sfaccettature nuove. “A raccontare le mie paure con qualcuno di fidato, mi sono accorta che queste si ridimensionano, addirittura perdono senso”, continuava la giovane donna di prima.

Dare parole, ad esempio, alla sofferenza collegata ad un lutto o ad una malattia, aiuta ad elaborare quegli eventi. E cosa significa? Elaborare vuol dire fare in modo che un’esperienza dolorosa non sia passata invano, che non abbia soltanto “tolto” delle cose alla propria vita, ma che l’abbia anche, per alcuni versi, arricchita. E questo accade soltanto se io glielo permetto.

Cosa può aiutare a condividere?

Scelgo con chi condividere – Non posso di certo parlare con chiunque delle mie esperienze più private. Cerco tra le persone vicine qualcuno con cui mi senta più a mio agio, che credo potrebbe comprendermi meglio di altri.
Anche gli altri hanno esperienza del dolore – Se credo che nessuno possa davvero capire, cerco di ricordarmi che l’esperienza del dolore, della paura ecc. è comune a tutte le persone, anche se può essere stata provata in situazioni diverse dalla mia. Sarà proprio questa base comune a rendermi comprensibile agli altri
Parto da questioni minori – Posso provare a raccontare aspetti meno importanti di me agli altri e vedere cosa accada. Se mi sentissi abbastanza tranquillo/a, potrei provare ad alzare via via il tiro.
Eventualmente posso anche rivolgermi ad un professionista – Uno psicoterapeuta ha la competenza per accompagnarmi nel rielaborare le esperienze e molte persone sono sollevate dal fatto che sia una persona esterna alla cerchia delle conoscenze. Va ricordato inoltre che è vincolato al segreto professionale.